Nei giorni degli attentati, io ero a Parigi per studio. Ho avuto la fortuna di poter parlare con le mie coinquiline, con le quali nel corso dei mesi si è creato un legame molto forte e una grande sintonia. Il fatto di condividere con qualcuno le proprie inquietudini, di ascoltare le reazioni differenti degli altri, e di elaborare insieme l’accaduto, tutto ciò ha davvero cambiato radicalmente il mio modo di vivere questo periodo. Per questo motivo, ho pensato che la testimonianza migliore fosse presentare le nostre tre diverse voci:
Martina: «Gli attentati del 13 novembre sono stati uno spartiacque fondamentale. Quando ora penso alla temporalità vedo un prima e un dopo attentati, prima sentivo più leggerezza e spensieratezza, nonostante la vita a Parigi sia sempre stata caotica e densa, ma dal momento degli attentati si è trasformato il modo in cui percepisco le cose. La spensieratezza è quasi totalmente sparita, è come se ci fosse una consapevolezza diversa in ogni mia azione.
La sera degli attentati ho avuto molta paura. I giorni dopo sono stati strani e irreali, ci aggiravamo per casa senza quasi parlare, rispondendo ai messaggi di amici e familiari. Dare senso agli eventi, parlando con i miei coinquilini, è stata la cosa migliore che potessi fare, l’unica cosa che mi ha aiutato a superare la prima settimana. Dare senso, sdrammatizzare, parlarne è fondamentale in situazioni come queste.
La vita poi è ricominciata, sono ricominciati i corsi, le uscite, il lavoro, ma è come se l’ombra di quello che è successo continuasse ad allungarsi su di noi. Tutt’ora non riesco a vivere Parigi come la vivevo a ottobre. Penso molto di più alle mie azioni e a quanto potrebbero essere rischiose, quando entro nei locali faccio caso al tavolo in cui mi siedo e se sono lontana dai vetri mi sento più a mio agio, anche se so che non si tratta di un pensiero o di un’azione razionale. Evito più che posso le metro. Sobbalzo quando sento rumori forti (questo in realtà sempre meno, ma sta comunque ancora succedendo). Molto spesso però, dopo mesi, mi sento sola in questa sensazione; è come se tutti nello stesso giorno ci fossimo resi per un attimo conto di ciò che è il mondo per brevissimi istanti, per poi dimenticare cosa effettivamente succede e può succedere, per poi dimenticare quanto purtroppo siamo fragili. Lo vedo nei controlli all’entrata dell’università, che dopo nemmeno tre mesi sono molto più deboli, il che mi fa pensare che la consapevolezza del pericolo costante sia totalmente svanita in breve tempo. Non dico che questo sia un male, penso sia umano e necessario, però a volte penso che bisognerebbe riuscire a rimanere presenti su alcune sensazioni, anche negative, per riuscire insieme ad andare più a fondo sulle radici del problema. E non credo che queste radici siano solo una minaccia che proviene dall’esterno, ma si trovino anche all’interno dei nostri stati europei: non sono forse nati e cresciuti in Europa questi attentatori? Che razza di accoglienza devono aver ricevuto, emarginati nelle periferie delle nostre città, per preferire l’adesione a un’ideologia così distruttiva? E ancora: la politica estera dei nostri stati non ha forse una grossa responsabilità, quando fa guerre per accaparrarsi le risorse degli altri paesi, senza preoccuparsi della devastazione che si lascia dietro, nella quale poi proliferano l’odio e la violenza?»
Pietro: «La maggior parte delle persone con cui ho parlato hanno avuto molta paura nei giorni successivi agli attentati. Io, ad essere sincero, non molta. Non c’è da farsene un merito o una colpa, le emozioni non si controllano. Fatto sta che trovandomi a parlare con loro, la mia reazione è stata quella di cercare di tranquillizzarle, di sgonfiare la loro paura.
Intendiamoci, credo che ci sia una componente positiva in questa paura: è sintomo del fatto che ci sta a cuore la vita, nostra e dei nostri cari, e forse anche di tutti gli innocenti che potrebbero essere vittime di azioni come queste. E, in generale, è sano avere paura di fronte a una minaccia reale, perché ci spinge a cercare di evitarla.
Però, in questo caso, non posso fare a meno di chiedermi se la paura che si è diffusa tra di noi sia proporzionata al pericolo reale. È chiaro che se guardiamo i video in cui i miliziani dell’Isis montano la loro messinscena per spaventarci, questo genera per forza timore in noi: sono immagini costruite appositamente, chi non avrebbe paura di fronte a un tizio vestito di nero che con un fucile in mano ti minaccia di morte? Però c’è una bella differenza tra fare una minaccia ed essere in grado di metterla in pratica. Certo, hanno realizzato alcuni attacchi, ma quale impatto hanno veramente? Se pensiamo a quante persone ogni anno in Europa muoiono per un attentato, si tratta di una percentuale davvero insignificante: rimane molto più probabile morire perché ci cade una tegola in testa, che per mano di un attentatore. Solo che la tegola non ha un aspetto così minaccioso, e i media non ne parlano tutti i giorni mostrandoci drammatiche riprese al rallentatore di tegole che si schiantano sulle teste di passanti ignari. E quanto alle minacce di conquista, di sventolare la bandiera nera su Roma? Anche il meno esperto di politica estera si può facilmente rendere conto che è come se un topolino minacciasse di mangiarsi un bue.
Certo, l’esistenza dell’Isis rimane una questione complessa e inquietante. Ma quello che mi preme mettere in luce è che il pericolo reale per noi non è affatto quello che l’atmosfera di panico dilagante ci ha spinto a credere.
Le parole che ci diciamo, le immagini che guardiamo, hanno un’influenza incredibile nell’aumentare o calmare la nostra paura. La nostra percezione di un evento cambia totalmente se tutti ne parlano oppure se nessuno gli dà importanza. Sentire continuamente che gli altri hanno paura e che dovremmo averne anche noi, ingigantisce enormemente la nostra ansia. Ho diversi amici che giorni successivi agli attentati hanno smesso di guardare la tv o di leggere i post su facebook, perché si rendevano conto che il loro principale effetto era quello di far crescere il panico.
In questa situazione, io ho cercato di remare nella direzione contraria. Se è vero che le parole che ci scambiamo possono essere usate per alimentare la paura, possono anche essere usate per sgonfiarla.»
Greta: «13 novembre 2015. Parigi. Si scopre cosa significa avere paura, ci si sente impotenti nel provare, per la prima volta, il terrore.
Ancora oggi non riesco a rendermi conto che sotto all’etichetta “13 novembre”, “generazione Bataclan”, “jesuis…”, ci sono stata e ci sono anche io. Ho cercato di fare in modo che quella classificazione potesse in qualche modo farmi riflettere. Dovevo cogliere quello che era successo per crescere, per pensare. Abbiamo avuto la fortuna di essere nati in Europa, viviamo in un posto in cui ognuno vede riconoscersi i propri diritti (o quasi), in cui gli studenti universitari hanno l’occasione di vincere borse di studio per studiare e al tempo stesso viaggiare, in cui spostarsi da una città all’altra non è mai stato così semplice, in cui, fino ad ora, abbiamo sempre ottenuto ciò che volevamo. Viviamo sotto una campana di vetro (o di oro?) che ci protegge da tutto e da tutti, dall’esterno (forse anche troppo). Il 13 novembre ha fatto traballare e spostare questa campana e chi era in prima fila, proprio nel punto in cui è entrata la ventata di mondo “esterno”, ne è rimasto sconvolto e traumatizzato. Ecco, in prima fila, in questo caso, c’è stata Parigi, ci siamo stati noi. La cosa che mi disarma è rendermi conto che, nel mondo, ci sono persone che provano questo terrore ogni giorno della loro vita, in ogni momento e in ogni parte della giornata, al lavoro, a casa, a scuola, in ospedale e persino la notte, mentre si cerca di dormire nel proprio letto. Come si può vivere così? È semplice vivere piangendo i morti degli altri, vedendo in televisione le immagini di guerra, dei bambini fasciati dalla testa ai piedi per una mina esplosa qualche giorno prima vicino alla bicicletta parcheggiata sotto casa, i barconi che inesorabilmente continuano a perdere passeggeri in mezzo al mare come briciole quando si spezza il pane. Quando la tragedia capita a te, è come se quel pianto dei genitori siriani, quei corpi privi di vita trovati sulle spiagge greche, quelle immagini di bombardamenti e città rase al suolo, ti si scagliassero addosso con una velocità disarmante. È in quel momento che percepisci la fragilità dell’uomo, della bellissima città in cui vivi e di tutto ciò che fino a quel momento ti sei costruito . Quanto ancora dobbiamo aspettare per far diventare nostro il pianto degli altri?»
Pietro Corazza